Affetti/effetti del reale
- On 12 Aprile 2019
Sigmund Freud ha lasciato un’immensa eredità alle generazioni successive, all’interno della quale brillano anche alcuni grandi interrogativi, il cui valore non è minore delle tante affermazioni che la sua opera ci ha donato. Per esempio: come finisce un’analisi? Oppure: come si trasmette il sapere analitico? A queste questioni – secondo il mio parere, ovviamente di parte – Jacques Lacan ha cercato di dare una risposta, inventando un dispositivo istituzionale atto a riscontrare quel che passa e ce qui se passe, quel che accade alla fine dell’analisi. Questa procedura – che si chiama naturalmente passe – concerne, però strettamente la teoria psicoanalitica, ed è quindi di limitato interesse all’interno di questa road map multidisciplinare. Di più vasta portata è invece un’altra grande questione che il sapere psicoanalitico ci impone, e cioè: come funziona un’analisi? È una domanda che l’epistemologia della clinica ci obbliga a porci, oggi, e che individua nel nostro ambito quello spazio di indagine che la logica della valutazione definisce come quello dei “fattori terapeutici”. Quali sono i fattori dell’analisi? Che cos’è che funziona davvero, che è efficace, che opera in una psicoanalisi – giacché essa, anche laddove non la si voglia definire “terapia”, è comunque un’operazione, un’opera, un lavoro supposto cambiare, modificare, trasformare qualcosa in chi vi si sottopone (altrimenti sarebbe, come la caricatura della filosofia, “quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”).
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